2- In Europa si impone l’economia circolare

21 March 2019

Con questo secondo articolo continua il monitoraggio degli eventi sul tema della sostenibilità per il progetto di Assomac “Supplier of Sustainable Technology”. 

In un mondo in cui il consumo di risorse è sempre più insostenibile, l’economia circolare è un investimento strategico. Soprattutto per l’Europa, che importa gran parte delle materie prime e può trarne benefici non solo ambientali ma anche economici. Abbigliamento e calzature hanno un impatto notevole sul clima: insieme, l’industria globale dell’abbigliamento e delle calzature rappresenta circa l’8% delle emissioni mondiali di gas serra.

 

Spesso si parla dei problemi legati al deficit nel bilancio pubblico, soprattutto in un paese altamente indebitato come l’Italia. Meno di frequente, invece, si sente parlare del deficit nei confronti del nostro pianeta. Infatti, secondo i dati del Global footprint network, ogni anno consumiamo 1,7 volte l’ammontare di risorse naturali che l’ecosistema Terra riesce a rigenerare, accumulando così un debito nei confronti delle future generazioni. E il 60% della nostra impronta ecologica deriva dall’emissione di CO2.

Abbigliamento e calzature hanno un impatto notevole sul clima

Insieme,l’industria globale dell’abbigliamento e delle calzature rappresenta circa l’8% delle emissioni mondiali di gas serra.Sono quasi 4 gigatonnellate (gt) di CO2-eq[1], quasi quanto l’impatto totale sul clima dell’Unione europea con tutte le sue attività industriali e di consumo. 

In questo contesto, dato valore 100 alle emissioni del settore in tutta la sua catena del valore, l’abbigliamento ne produce per l’83%, mentre le calzature il 17%. 

In media, ogni cittadino del mondo consuma 11,4 kg di abbigliamento all’anno. Questo produce emissioni pro capite di CO2di 442 kg, circa la stessa quantità emessa durante la guida di un’automobile per oltre 2.400 km. 

Se tecnologie e produzione rimanessero costanti nel tempo al livello in cui sono oggi, l’impatto climatico dell’industria dell’abbigliamento potrebbe aumentare del 49% entro il 2030; il che significa che l’industria dell’abbigliamento e delle calzature emetterà da sola ben 4,9 gt di CO2-eq, quasi pari alle emissioni annue di gas serra degli Stati Uniti con tutte le loro attività di produzione e consumo.

Nell’industria dell’abbigliamento, ogni dollaro o euro speso ha un impatto significativo sul clima. La famiglia media americana, per esempio, impegna meno del 3% delle sue spese familiari annuali per l’abbigliamento[2], pur provocando un grande impatto ambientale. 

L’economia circolare

Dalla necessità di superare il sistema lineare nasce l’economia circolare, che si fonda su tre pilastri: preservare il capitale naturale utilizzando il più possibile risorse rinnovabili, ottimizzare l’uso delle risorse, e minimizzare le esternalità negative. Il fine ultimo è slegare lo sviluppo economico dal consumo di risorse finite. Nella pratica ciò vuol dire creare modelli di business basati sull’utilizzo di risorse facilmente riciclabili o biodegradabili (eco design), utilizzare energia da fonti rinnovabili, progettare prodotti che abbiano una vita utile più lunga e al contempo renderne più efficiente l’utilizzo.

Sia l’Ocse, in un’analisi a livello globale, che la Commissione europea, in un’analisi sulla Ue, prevedono come nullo o leggermente positivo l’impatto sul Pil rispetto allo scenario di business “as usual”. Tuttavia ci sono due effetti prevedibili, oltre ai benefici ambientali. Da un lato, la creazione di nuovi posti di lavoro grazie allo sviluppo dell’industria del riciclo e dei servizi, che sono maggiormente intensivi in lavoro rispetto all’estrazione e produzione di materie prime; dall’altro, un cambiamento nella composizione del commercio con una riduzione dell’export di materie prime e un maggiore sviluppo dei servizi.
Per l’Europa l’economia circolare costituisce quindi un’enorme opportunità. Primo, perché permette di ridurre l’importazione di materie prime. Infatti, oggi importiamo da paesi extra-Ue più di due terzi di metalli come l’alluminio, il rame e il litio, il 90% del petrolio e il 70% del gas naturale. Queste, come molte materie prime strategiche, sono geograficamente concentrate e di conseguenza aumentano i potenziali rischi geopolitici.

Inoltre, sempre secondo l’analisi condotta dalla Commissione, in Europa l’economia circolare può creare 700 mila posti di lavoro addizionali, con benefici maggiori per i servizi, le utility, la gestione dei rifiuti e il recupero di materiali e componentistica.

È tempo che i settori della moda inizino a perseguire degli obiettivi importanti per l’economia circolare

Il ruolo dell’industria globale dell’abbigliamento e delle calzature è andato ben oltre l’obiettivo di un bisogno umano fondamentale. Con il cosiddetto “consumismo”, il rapporto con la moda nella nostra vita moderna ha avuto un significativo impatto collaterale sulle risorse del nostro pianeta. Mentre affrontiamo urgenti sfide ambientali e sociali dovute al cambiamento climatico e all’esaurimento delle risorse natutrali, l’efficacia delle soluzioni dipenderà dalla creatività, dall’innovazione e dall’audacia, che sono pure caratteristiche dell’industria della moda. È tempo che gli imprenditori coinvolti nella filiera cambino la traiettoria. Ci sono alcuni indicatori chiave sui quali calibrare gli obiettivi concreti di riduzione dell’impatto ambientale per promuovere cambiamenti significativi per garantire un futuro più sostenibile per almeno il settore della pelle e delle calzature.

Vedremo nel prossimo articolo che si tratta di condensare in alcuni indicatori chiave l’impatto ambientale del settore dell’abbigliamento, che si misura con le emissioni di gas serra in CO2-eq, l’utilizzo di energia non rinnovabile, il consumo dell’acqua dolce, l’ecotossicità dell’acqua e del suolo, o acidificazione, la salute umana, la tossicità umana, tipo gli effetti respiratori, ecc. 

 

[1]CO2eq sta per CO2 equivalente, ossia l’unità di misura che permette di pesare insieme le emissioni dei vari gas serra aventi differenti effetti sul clima.

[2]U.S. Bureau of Labor Statistics 2016


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