Il gruppo cinese della moda fast fashion ha lanciato una nuova piattaforma disponibile per ora solo per il mercato americano. L’opportunità? Quella di acquistare e ri-vendere i loro vecchi vestiti e scarpe direttamente attraverso l’app. A darne l’annuncio è Business of Fashion in un articolo in cui spiega quel che, per ora, si conosce di questa operazione di cui sentiremo molto parlare.
Così leggiamo: «Questa mossa è sia un modo per costruire un punto di riferimento in un mercato di consumo in rapida crescita, sia parte di una serie di sforzi progettati per combattere le critiche secondo cui il loro modello di business veloce e a basso costo è l’antitesi degli sforzi per fare moda più sostenibile». Secondo Bof, per grandi marchi come Shein, «è improbabile che la rivendita diventi un grande generatore di entrate in tempi brevi. Ma offre un motivo convincente per far tornare i clienti. Potenzialmente aprendo nuovi punti di contatto con i consumatori e creando coinvolgimento». Fidelizzare quindi sembra essere la parola d’ordine. Ma anche riallinearsi con i nuovi diktat di sostenibilità, considerato che «Shein è stata molto attaccata per non essere un marchio sostenibile. È stato al microscopio per un po’ di tempo…».
Una cosa è certa: il grande successo che le app per vendere vestiti usati stanno avendo negli ultimi anni ha assolutamente senso. La recessione e la crisi climatica sono le prime motivazioni plausibili che vengono in mente. Ma, fare posto nell’armadio e vendere quello che non va bene per noi ha più di un vantaggio. Oltre a regalarci spazio e ordine, il primo è senza dubbio rappresentato da una più o meno piccola fonte di guadagno extra. Il secondo è che si tratta di uno shopping sostenibile. Perché rimette in circolo una grande quantità di abbigliamento senza i costi e i danni ambientali della produzione e della messa in vendita.
La verità è che la moda “fast fashion” di Shein cominciava a non piacere. Il negozio online di vestiti economici, popolarissimo tra i giovani, viene criticato sempre più per il suo enorme impatto ambientale.
Ha cominciato ad attirare numerose critiche per un approccio che secondo vari punti di vista incentiva lo shopping sfrenato, con un impatto ambientale presumibilmente enorme.
Shein fu fondata nel 2008 dall’imprenditore cinese Chris Xu a Nanchino. All’inizio vendeva abiti da sposa comprati nei mercati all’ingrosso, poi cominciò a vendere anche abiti normali, sfruttando il fatto che all’epoca i negozi di vestiti online non erano molti.
Le cose iniziarono ad andare particolarmente bene nel 2015, quando il negozio online cominciò a produrre i propri abiti, spostando la produzione a Canton, il centro della manifattura tessile cinese. Fu allora che Shein – fino a poco prima SheInside – iniziò a puntare sia sulle tecnologie digitali che sulla propria immagine per competere con i più grandi marchi di fast fashion mondiali e prendersi quote del mercato europeo e americano.
A differenza di altri negozi di abbigliamento fast fashion, come Zara e H&M, Shein vende i propri prodotti direttamente al pubblico, senza intermediari, in modo da abbattere i costi. Si basa su un flusso di produzione velocissimo e non ha una propria identità o una propria estetica, ma usa algoritmi e analisi dei dati per intercettare le mode dei vari paesi e riproporle il più velocemente possibile nelle sue nuove collezioni, spesso copiando esplicitamente le creazioni di stilisti più o meno famosi, replicandole con una qualità molto più bassa.
Con questo sistema, Shein riesce a produrre nuove collezioni nel giro di pochi giorni, mentre i suoi principali rivali ci impiegherebbero in media tre settimane; inoltre, riesce a mettere online migliaia di nuovi capi ogni giorno, come magliette a 6 euro e vestiti estivi da 11 euro, incentivando l’acquisto anche attraverso sconti e promozioni.
La pandemia da coronavirus ha contribuito enormemente alla crescita di Shein, sia perché altri marchi di fast fashion avevano sempre puntato molto sui negozi fisici, sia grazie alle campagne pubblicitarie su Facebook, Instagram e TikTok. Buona parte del successo del marchio arriva proprio dal seguito che si è costruito sui social: semplicemente chiedendo alle sue utenti di pubblicare foto con i suoi vestiti, per poi pubblicarle sul canale ufficiale dell’e-commerce, oppure tramite accordi di collaborazione con varie influencer.
Un altro modo con cui Shein si è affermata tra le generazioni più giovani sono i cosiddetti “haul videos”, letteralmente “i video del bottino”, cioè quelli in cui le persone aprono i pacchi di prodotti che ordinano a casa, aumentando la visibilità dei vari marchi. Per dare l’idea, i video catalogati con il tag “Shein Haul” su TikTok sono stati visti più di 5,7 miliardi di volte. Con oltre 25 miliardi di visualizzazioni del suo hashtag, Shein è il marchio più citato in assoluto su TikTok, il social network frequentato soprattutto dalle persone della “generazione Z” (cioè quelle nate dopo il 1996).
Se da un lato migliaia di giovani continuano a trovare Shein attraente e competitivo, molte altre, più attente alla sostenibilità ambientale, ne contestano l’approccio, criticando l’azienda anche per il presunto sfruttamento del lavoro minorile e dei lavoratori in generale, che nell’industria del fast fashion è un problema molto attuale.