La cultura del drop che diffonde ansia da scarsità e crea speculazione

23 Settembre 2022

Scrive il @WSJ che in sempre più settori si sta diffondendo la strategia di vendere un prodotto con disponibilità limitata per un breve lasso di tempo. Con questo modello, i prodotti escono – o sono lasciati cadere, di qui la definizione “drop culture” – all’improvviso e a tiratura limitata. Le possibilità speculative hanno fatto la fortuna di molti collezionisti di sneaker e brand, avvicinato il drop al settore dei certificati digitali NFT. [ Companies Used to Announce Products. Now They 'Drop' Them. – WSJ]

 

 

James Jebbia è un imprenditore e stilista anglo-americano che nel 1994 fondò il marchio di abbigliamento Supreme, aprendone il primo negozio a New York. Nel corso degli anni seguenti, il marchio riuscì a conquistare un pubblico sempre più grande, grazie anche a una strategia commerciale ispirata a una moda in voga nei negozi di streetwear di Tokyo negli anni Ottanta. Ogni giovedì, alle 11, Supreme metteva in vendita collezioni limitate di nuovi prodotti, disponibili in una manciata di negozi nelle principali metropoli del mondo, e online.

Alla base di questa scelta c’era il concetto di scarsità, sia di tempo che di risorse: i clienti dovevano fare in fretta e mettersi in fila ore prima per potersi aggiudicare il nuovo capo, che veniva venduto a caro prezzo, proprio perché raro e disponibile per un breve periodo. Col tempo, questi appuntamenti settimanali presero il nome di «Supreme Drop», diffondendo prima nel mondo della moda e poi nella cultura generale una nuova forma di commercio. Con questo modello, i prodotti sono lasciati cadere all’improvviso, spesso a sorpresa, e a tiratura limitata.

A ventotto anni dalla nascita di Supreme, il modello del drop è diventato centrale nella moda, espandendosi anche ad altri settori e diventando una prassi per il mondo digitale. Come ha scritto il Wall Street Journal, «ogni giorno avvengono dozzine, se non centinaia, di drop annunciati nelle app delle aziende o su TikTok, Instagram e gli altri social network». La pratica è spesso associata a collaborazioni tra marchi e personalità differenti, come in uso da tempo nel mondo della moda, nel quale le collezioni speciali di questo tipo vengono spesso chiamate “capsule”. Molto spesso, sono distribuite con un drop.

 

In alcuni casi, le collaborazioni vedono la partecipazione di marchi e personalità piuttosto distanti tra di loro, con risultati anche bizzarri. Nel 2020, ad esempio, Crocs – la nota azienda produttrice di sandali di gomma – ha realizzato un paio di ciabatte speciali con la partecipazione della catena di fast food KFC. Qualcosa di simile è successo con McDonald’s, che ha lanciato una linea di t-shirt realizzata in collaborazione con il cantante e rapper Kid Cudi.

Accostamenti simili assicurano una copertura mediatica più ampia e innescano discussioni sui social network, dove i nuovi drop vengono annunciati, commentati, e possono diventare meme. Il caso Crocs-KFC è l’emblema di questo approccio, vista soprattutto la natura divisiva del brand di calzature, diventato negli ultimi anni «un’improbabile storia di successo nella moda» – come l’ha definito il sito specializzato Highsnobiety – anche grazie a endorsement da parte di celebrità e collaborazioni con marchi di moda come Balenciaga o cantanti come Post Malone e Justin Bieber.

Un altro fattore che ha caratterizzato il successo della cosiddetta “drop culture” è l’e-commerce e la sua relazione con i social network. L’attesa spasmodica per i nuovi prodotti di Supreme, infatti, non si tradusse solamente in file più lunghe davanti ai negozi selezionati, ma coinvolse soprattutto il mercato digitale, con migliaia di utenti che attendevano la possibilità di acquistarli dal sito dell’azienda.

Nel corso degli anni Dieci, il drop è diventato lo strumento migliore per la creazione e la gestione del cosiddetto hype, cioè l’attesa trepidante per un qualche tipo di prodotto, film o disco di imminente uscita. Perché riesce a tenere insieme viralità, scarsità e quella che viene chiamata «FOMO» (Fear of missing out, «la paura di perdersi qualcosa»). Il meccanismo ha saputo soddisfare soprattutto i gusti e le dinamiche care agli sneakerhead, gli appassionati di scarpe da ginnastica e sneaker, già abituati a spendere cifre notevoli per modelli vintage, rari o da collezione.

Per meglio gestire i drop aziendali, nel 2015 Nike realizzò un’app apposita, chiamata SNKRS, con cui gli utenti potevano seguire in tempo reale i nuovi lanci a sorpresa (drop). Uno dei fondatori del servizio, Dennis Todisco, è stato assunto nel 2020 da Instagram come responsabile delle partnership con le aziende del settore streetwear. Un anno dopo, il social network ha lanciato Instagram Drop, una funzionalità del social network pensata proprio per seguire i drop di aziende e influencer.

Queste distribuzioni improvvise si sono trasformate in «eventi di rilievo che includono conti alla rovescia, edizioni limitate di beni personalizzati, collaborazioni tra influencer e brand, e un ciclo continuo di nuove uscite in grado di creare dipendenza», secondo il Wall Street Journal. Al posto dei tradizionali campionari stagionali che per decenni hanno caratterizzato il settore dell’abbigliamento si sono diffuse “capsule” composte da pochi prodotti, che però escono più volte all’anno, riempiendo il calendario di eventi che sembrano unici e imperdibili.

Il successo commerciale di questa pratica ha finito per diffondere l’uso della parola drop in altri ambienti, come la musica, soprattutto quella hip hop, sempre vicina alle logiche della moda. Grazie anche alla diffusione delle piattaforme di streaming, infatti, le nuove uscite discografiche vengono caricate online nello stesso momento (solitamente la mezzanotte tra giovedì e venerdì): vengono insomma “droppate”, per usare un termine sempre più usato anche in Italia.

Qualcosa di simile sta avvenendo anche nel settore alimentare, dove sempre più catene di ristoranti e aziende produttrici stanno sperimentando questa strategia di marketing. Oltre all’effetto trainante della moda, a influire sono anche la carenza di personale nel settore e i disagi provocati dalla catena di approvvigionamento, a causa della pandemia e della guerra in Ucraina. Secondo l’esperta di marketing Liz Aviles, questi fattori hanno costretto molti ristoranti a semplificare i loro menù, concentrandosi sulle pietanze che sono rimaste: «Ora bisogna creare aspettativa per un piatto da non perdere», ha spiegato al sito Thrillist. Nel settore della ristorazione, il ricorso al drop permette anche di ottimizzare gli investimenti nelle materie prime, concentrandosi su un determinato prodotto alimentare per un breve lasso di tempo, ottimizzando i costi.

Il concetto di drop è stato facilmente adottato anche dal mercato dei beni digitali, per esempio su Twitch, il sito specializzato in dirette streaming che lo ha applicato in dirette speciali in cui l’utente può guadagnare ricompense, oppure nel videogioco Fortnite, che lo ha sfruttato in eventi online speciali in cui i giocatori possono ottenere premi avendo un’esperienza di gioco diversa dal solito.

Visto che una delle caratteristiche principali degli oggetti venduti in questo formato è la loro scarsità, a rappresentare un’attrattiva per molte persone è la possibilità di rivendere il bene comprato in un drop. Le possibilità speculative hanno fatto la fortuna di molti collezionisti di sneaker e brand come Supreme o Balenciaga, ma hanno anche avvicinato il meccanismo dei drop al settore degli NFT.

Questi discussi certificati di proprietà digitale basati sulla blockchain, infatti, sono spesso organizzati in “collezioni” speciali che, proprio come nella moda, vengono vendute via drop. L’incentivo all’acquisto viene anche dalla speranza che il bene digitale acquistato possa aumentare di valore, seguendo gli andamenti tipici del cosiddetto “settore crypto”. Prima che il numero di scambi nelle piattaforme dedicate agli NFT crollasse negli ultimi mesi, Nike aveva investito direttamente nel settore, acquisendo Rtfkt, una startup specializzata nella produzione di abbigliamento digitale.

La falsa urgenza alla base della “drop culture” è stata spesso accusata di favorire il consumismo, spingendo le persone ad acquistare prodotti anche per poter partecipare a un’esperienza collettiva, in cui la semplice messa in vendita di un capo diventa qualcosa di personale. Secondo l’agenzia di consulenza femminista Sister questo metodo di vendita premierebbe e incentiverebbe l’individualismo e il materialismo, invece di puntare sulla sostenibilità e sul ricircolo dei beni.

Dal 1994 a oggi il concetto di drop si è diffuso ed è diventato una nuova prassi per molti settori, complice il successo delle vendite online. Uno degli esempi più recenti è stata la messa in vendita da parte di Swatch di MoonSwatch, un orologio prodotto in collaborazione col marchio di lusso Omega: migliaia di persone si sono messe in coda per ore in diverse città per provare ad accaparrarsene uno.

Il rischio però, secondo il Wall Street Journal, è che il drop si sostituisca alla normale distribuzione di beni e servizi in certi campi, diventando semplicemente un sinonimo di «nuova uscita». Il fenomeno sarebbe «già così diffuso da essere in pericolo di sovraesposizione», eventualità che potrebbe intaccarne la forza attrattiva che esercita ancora oggi, specie tra i più giovani. Andrea Hernandez, fondatore della società di consulenza Snaxshot, specializzata in lifestyle giovanile, sostiene che «la lingua dei drop sta venendo abusata nello stesso modo in cui le persone usano il termine “biologico” a sproposito».

Quando un approccio commerciale alternativo ed eccezionale diventa la prassi del mainstream, viene meno la sua capacità di generare fascino e risultare alla moda e trasgressivo. Qualcosa di simile è successo proprio a Supreme, che dopo anni di dominio del mercato giovanile è stata acquisita nel 2020 dall’enorme azienda della moda VF Corporation per 2,1 miliardi di dollari. Secondo alcuni osservatori, la vendita del marchio ne ha causato il declino: da allora ha perso parte del suo smalto, nonostante i drop. Il giorno in cui fu siglato l’accordo tra le due società, l’esperto di media ed e-commerce Web Smith scrisse su Twitter: «La proprietà di Supreme ha scelto la distribuzione di massa invece di rimanere un “bene Veblen”». Ovvero, un tipo di prodotto per cui il desiderio d’acquisto aumenta al crescere del suo prezzo.

 


Paese: Stati Uniti d'America
speculazione| moda| NFT (non-fungible token)| Sneakers| marketing| drop| digitale

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